Il senso di disdetta. Quando il viaggio finisce proprio mentre stavamo iniziando a capire
- giuliadonatipsi
- 8 apr
- Tempo di lettura: 3 min

C'è un momento, nella vita, in cui si comincia a intravedere il paesaggio. Dopo tanta nebbia, curve e silenzi, ci si accorge che forse qualcosa sta prendendo forma. È una sensazione sottile, una quieta comprensione che si affaccia: sto iniziando a capire. E poi, all’improvviso, una voce annuncia la fine: “È finito il viaggio.”
È questo che il poeta Giorgio Caproni chiama “disdetta”: non tanto il termine di qualcosa, ma il suo arrestarsi nel momento in cui il senso iniziava appena a delinearsi. Una rottura prematura, un’interruzione crudele, che lascia dietro di sé il vuoto di ciò che non è stato.
Delusione come esperienza del limite
La delusione è una forma intensa e concreta di perdita. Non è solo la fine di un’attesa, ma lo scontro tra ciò che speravamo e ciò che accade. È l’interruzione di un processo di attribuzione di senso.
Nel corso di un colloquio psicologico, ascoltiamo spesso questo dolore:
“Proprio quando avevo trovato un equilibrio…”
“Quando ho cominciato a fidarmi…”
“Quando sentivo che finalmente…”
Eppure, proprio allora, qualcosa crolla. Un lutto. Una separazione. Un ritorno del sintomo. Una parola che ferisce.
La disdetta non arriva mai all’inizio. È proprio quando ci si apre, quando si smette di difendersi, che può accadere.
La disdetta come ferita e soglia
Nel modello costruttivista, il significato dell’esperienza non è dato, ma negoziato, costruito all’interno della relazione. La disdetta può diventare una frattura nel racconto di sé, un punto in cui la narrazione si interrompe, o perde coerenza.
Ma ogni frattura può anche diventare una soglia. Non subito. Non senza dolore. Ma nel tempo, con uno sguardo curioso, quella fine può essere rivisitata.
Non per negare la perdita, ma per restituirle un posto nella trama della propria storia.
Chi eravamo quando abbiamo iniziato a capire il paesaggio?
Cosa stavamo vedendo?
Cosa ci è stato tolto? E cosa possiamo ancora costruire?
Lo spazio terapeutico, in questo senso, è anche uno spazio in cui imparare a stare nella disdetta: non per trovare risposte immediate, ma per restare un po’ lì, dove fa male, dove il paesaggio si spezza. E ascoltare.
L'interruzione come parte della forma
Nel lavoro clinico, come nella vita, c'è un paradosso: spesso le esperienze più significative non sono lineari, compiute, rassicuranti. Sono interrotte. Sono finite prima. Ma non per questo prive di valore.
La delusione può diventare una via per contattare la propria vulnerabilità, la propria capacità di attribuire significato anche dove il senso sembra sfuggire. È un terreno fertile, sebbene doloroso, per la trasformazione.
Proprio quando il capotreno dice “si scende”, possiamo decidere di non lasciare che il viaggio sia solo perdita. Possiamo domandarci:
Chi ero mentre cercavo di capire?
Cosa porto con me da quel paesaggio appena intravisto?
Quale nuovo itinerario potrei tracciare, adesso?
Conclusione. Non tutti i viaggi finiscono per sempre
Forse la disdetta è anche questo: la fine di un viaggio, ma non necessariamente della possibilità di viaggiare. È l’interruzione di quel senso, non della capacità di cercarne di nuovi.
Nel dolore della delusione può aprirsi, se accompagnato e riconosciuto, un altro tipo di movimento: più cauto, più consapevole. Forse meno ingenuo, ma più radicato.
In fondo, la poesia non parla solo di una fine. Parla del momento in cui qualcosa stava diventando chiaro. E questo momento, anche se interrotto, lascia traccia.
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